Comprendere le ragioni profonde che preservano la vicinanza al proprio carnefice significa considerare quel lento e graduale indebolimento psicologico, che gli studiosi appellano sotto il nome di “impotenza appresa”; la dinamica che si innesca nella relazione sentimentale sembra, infatti, seguire un iter di fasi ben preciso, il cosiddetto “ciclo della violenza”.
«Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda nel quale nuota una rana. Il fuoco è acceso sotto la pentola e l’acqua si scalda gradualmente, incontrando il favore della rana, che la trova sempre più gradevole. La temperatura sale, un po’ più di quanto la rana non apprezzi.
L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole ma si è indebolita a tal punto da non avere la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla.
Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce morta bollita».
Cosa accomuna questa storia al circuito perverso della violenza?
Spesso quando si ascoltano esperienze di maltrattamento, le domande che bombardano la donna semplificano, e spesso banalizzano, la difficoltà che quest’ultima incontra nel “saltar fuori” da quel calderone di offese, insulti e aggressività, calibrando la propria vita su un nuovo termostato affettivo. Ma perché non reagisci? Cosa aspetti ad andartene? Se resti, forse, te la sei cercata!
In realtà comprendere le ragioni profonde che preservano la vicinanza al proprio carnefice significa considerare quel lento e graduale indebolimento psicologico, che gli studiosi appellano sotto il nome di “impotenza appresa” (Seligman, 1977). La dinamica che si innesca nella relazione sentimentale sembra, infatti, seguire un iter di fasi ben preciso, il cosiddetto ciclo della violenza (Walker, 1979), in ragione del quale il partner maltrattante alterna periodi di idilliaca complicità ad improvvise escalation di violenza, quasi sempre seguite da azioni di pentimento, scuse e regali. Tale ciclicità, se da un lato intensifica il legame con l’abusante, permettendo alla donna di sperimentare nuovamente gli aspetti positivi del rapporto amoroso, d’altro canto ha come obiettivo ultimo quello di esercitare il controllo della relazione, innalzare lentamente il fuoco sotto la pentola e mantenere la donna in un limbo, prosciugandole forze ed energie. Quest’ultima infatti, disorientata e confusa dal comportamento imprevedibile dell’uomo, si convince di essere la causa delle rotture e delle tensioni di coppia; ciò instilla in lei l’idea di poter prevenire le esplosioni violente del compagno, in un susseguirsi di strategie, accortezze e accorgimenti che, pur volendo disinnescare l’aggressività del partner, si rivelano fallimentari.
E così come la rana rinuncia a saltar fuori dalla pentola, perché stanca e affaticata, anche la donna si arrende, convinta di non poter far nulla per cambiare le cose, in una spirale che, a poco a poco, mina la percezione della propria efficacia e la fiducia nelle proprie capacità.
Il senso d’impotenza paralizza la donna impedendole qualsiasi movimento, non solo rispetto al rapporto di coppia ma anche al di fuori del legame maltrattante, avallando un comportamento di passiva rassegnazione che si autoalimenta, nella misura in cui più la donna cerca di prevenire le violenze del partner, più quest’ultime si intensificano, confermandole l’impossibilità di reagire e la certezza di non aver alcun potere sulla propria vita.
Ma se è vero che l’impotenza si apprende, è pur vero che la donna, a differenza della nostra povera rana, può spegnere il fuoco dei maltrattamenti prima che sia troppo tardi.
Il centro Antiviolenza “Carmela Morlino” dell’Ambito Territoriale di Foggia offre alle donne la possibilità di chiedere aiuto e saltar fuori dal pentolone della violenza, attraverso l’avvio di un percorso psicologico, sociale e legale che prova a rinvigorire risorse e capacità sfibrate dai maltrattamenti.
Perché il dolore lascia le sue scottature ma può essere altresì preludio di una nuova rinascita.